giovedì 5 gennaio 2012

Quasi quasi ci provo (I)

In questi giorni ho letto una raccolta di raccondi del "Re" (di nome e di fatto) dell'horror americano, Stephen King, chi altro, e sull'onda dell'entusiasmo per il "racconti brevi", sfruttando noiosissime pause pranzo passate in solitario, ho deciso di fare un tentativo.
Nell'introduzione alla raccolta l'autore stesso dice di avere, col tempo, "disimparato" a scrivere racconti, e di rimpiangere la possibilità di scrivere questo genere di letteratura.
Io non ho praticamente mai scritto racconti, ma leggendo le sue parole, m'è venuta la curiosità di provarci, ed ecco il risultato.


Solo
Urgenze e casini. La colonna sonora della sua vita lavorativa.
Ad Alberto piaceva definire così la sua attività di colletto bianco full time con mansioni amministrative presso la Backerman's International. Filiale italiana. Sede di Milano.
Urgenze a casini. Oramai per lui era semplice abitudine, ma non gli era mai capitato di dover lavorare sotto le feste. Non gli era mai successo.
Era capitato altre volte di restare in ufficio finro a tardi, solo, ma era sempre stato confortato dal fatto che, era convinto, ci fosse qualcun'altro all'interno dell'edificio di 30 piani nel quale lavorava ormai da 10 anni.
Qualcuno c'era sempre. Ora invece, ne era certo, era solo. Completamente.
Nessuno alla reception giù nella hall. Nessuno nello studio di architetti del piano di sopra. Nemmeno una mezza segretaria sgnagherata nello studio contabile 3 piani più sotto.
Il parcheggio era deserto e tale sarebbe rimasto visto che lui si ostinava ad usare i mezzi, non possedendo una macchina non avrebbe potuto comuqnue fare diversamente. quindi il parcheggio era destinato a restare desetro, nonostante la sua presenza.
Era completamente solo in uno spazio che, valutava, nei momenti di piena attività ospitava centinaia se non migliaia di persone. Tutt apine nell'alveare. Tutte con la propria funzione. Tutte impegnate. Tutte produttive.
Ed ora lui era solo, e lo sarebbe stato per i prossimi 3 giorni. Era solo e con un lavoro da portare a termine.
L'anno precedente, il solo fatto di dover lavorare tra le festività, l'avrebbe irritato non poco, ma dopo quello che era successo durante gli ultimi 10 mesi era quasi felice di non dover restare a casa. Era stato un anno a dir poco disastroso e la somma di tutti i suoi guai aveva finito col fare pari alla sua voglia di festeggiare la fine di quella disastrosa annata.
Tutto era iniziato circa 11 mesi prima, quando le lezioni di squash della moglie avevano assunto un nuovo e poco piacevole significato. Scoprire che se la faceva con l'istruttore l'aveva lasciato di sasso. Letteralmente. Non aveva saputo come reagire se non uscendo di casa per non tornarci praticamente più.
Non era tanto il fatto che sua moglie, la "sua" amata compagna, la sua Angela, avesse una tresca a sconvolgerlo. A lasciarlo letteralmente senza fiato era stata la netta sensazione che se non se ne fosse uscito da li immediatamente avrebbe potuto fare qualcosa di cui si sarebbe poi pentito. Aveva sentito un'ondata d'odio e di violenza prevadere ogni fibra del suo essere, solitamente pacato e pacifico, e stava per cedere a qull'irrefrenabile impulso omicida quando si rese conto che non poteva farlo per un solo ed ovvio motivo.
Sua figlia sarebbe poi restata sola. Madre morta e padre in prigione.
Non avrebbe potuto falre questo. Non avrebbe mai potuto farle del male.
E quindi se ne era semplicemente andato. Era uscito di casa con Angela che continuava a vuotare il sacco confessando frequenze nei rapporti, posizioni e dettagli che lui non aveva nemmeno ascoltato. Quando s'era tirato dietro la porta l'aveva lasciata urlante, quasi isterica, mentre lo insultava per la sua mollezza nella vita ed a letto.
Col solito senno di poi aveva capito che andarsene così non era stata una buona mossa. Sopratutto dal punto di vista legale. E sua moglie lo sapeva. Chissà da quando pianificava la cosa con le sue amiche. Tutte divorziate e con l'amante di almeno 10 anni più giovane di loro.
Era convinto di una cosa. Che l'avesse fatto più per il desiderio di adattarsi a loro, al loro tenore di vita, più che per altri motivi. Era sempre stata troppo suscettibile e suggestionabile. Glielo diceva sempre lui. "Pensa con la tua testa!"
E l'aveva fatto.
La mattina dopo la sua uscita di scena era stato svegliato da una telefonata di Tania, la sua amata figlila. L'aveva aggredito in una maniera che non pensava possibile, vomitandogli addosso anni di rancori e disaccordi ereditati o forse inculcati dalla madre.
Non gli aveva dato la possibilità di spiegare. O forse lui non era stato in grado di farlo.
L'aveva semplicemente affossato di male parole per poi sbattegli il telefono in faccia urlandogli "ti odio". La sua piccola. Il suo amore. Il suo tesoro.
Ora lo odiava, e lui non capiva ancora come avesse fatto sua madre a farle un lavaggio del cervello tanto radicale senza che lui si accorgesse di nulla. Chissà da quanto tempo andava avanti quella storia, e lui non s'era accorto di nulla.
Ed ora era solo.Sotto tanti, troppi aspetti.
Un lavoro da compiere e tre giorni per farlo.
Ci si mise di buona lena. Non aveva altro da fare.
La prima mezza giornata filò tutto liscio e senza intoppi. Certo, cotinuava a sentirsi in pochino a disagio, tutto quel silenzio, ma rimase concentrato e focalizzato sul suo lavoro. Quando finalmente l'orologio da polso lo avvertì che era ora di andare a pranzo quasi non sentì il "bip" tanto era concentrato. Si riscosse, quasi si fosse addormentato, quasi con un sobbalzo. Alzandosi dalla scivania si strofinò il volto, cercando di rinfrescarsi le idee...
Non era stato 4 ore a far nulla, vedeva chiaramente di fronte a lui i risultati di un'intensa attività lavorativa, ma non s'era praticamente reso conto di nulla. Aveva lavorato come in trance. Ed ora aveva una fame bestiale. Erano settimane che non aveva così fame. Quasi di buon umore si alzò dalla sua scrivania, nel suo bel cubicolo due meti per due scarsi, e quasi si aspettava di trovarsi di fronte alla solita, frenetica, attività da alveare.
Rimase deluso. Nessuna testa fluttuante.
Le chiama così, vista l'altezza dei separatori che dividevano il grande opn space che era il suo abituale luogo di lavoro, le persone che vi camminavano in mezzo normalmalmente erano visibili solo dal collo in sù. Teste fluttuanti le chiamava, e quasi si aspettava di vederne qualcuna quando si rialzò dalla scrivania.
Ma non c'era nessuno, era solo. Ora ricordava.
Dandosi dello stupido si diresse verso l'area preposta alle pause pranzo. Una sala quadrata, con un grande tavolo rotondo nel mezzo illuminato da spietate luci al neon, dove normalmente osservava gli altri mangiare i loro pasti riscaldati al microonde mentre lui sgranocchiava le solite schifezze prese dal distributore automatico.
Aveva sviluppato, in quegli anni, una certa gelosia nei confronti di quei pasti riscaldati, quelli che consumavano i suoi colleghi. Li immaginava preparati da amorevoli compagne o mogli. Lui non li aveva mai avuti, e non aveva mai immaginato che in realtà, in molti casi, fosse preparati dai colleghi stessi; non dalle loro amorevoli mogli o compagne. Lui un'amovorevole moglie o compagna non ce l'aveva più, e visto che da decenni oramai la pausa pranzo la passava inserendo monetine nei distributori automatici, forse non ce l'aveva mai avuta.
Quei pasti riscaldati al microonde gli avevano sempre creato una certa sensazione di disagio, quasi come se stessero ad indicare qualcosa che lui non aveva mentre i suoi colleghi, coi loro Tupperware di vari colori, invece non esitavano a far notare. Quasi se ne vantassero apertamente, per fargli notare un'altre delle sue mancanze. Era arrivato anche a comprarseli, i Tapperware, una volta che aveva traslocato nel suo nuovo monolocale da single, ma poi s'era reso conto che non bastava avere i contenitori, bisognava anche organizzarsi per il contenuto, facendo in modo che fosse anche vagamente commestibile, e visto che nessuno in ufficio sapeva nulla della sua situazione famigliare aveva continuato a mangiare schifezze ai distributori automatici.
I Tapperware erano rimasti a casa, vuoti, nella credenza dell'angolo cottura del suo monolocale da single in affitto. In attesa di un qualche utilizzo.
Ravanando nelle tasche in cerca delle monetine per il pranzo si avvicinò al suo distributore preferito, quello delle schifezze salate, pregustando poi una capatina anche a quello del dolce, per premiarsi della fruttuosa mattinata lavorativa, quando qualcosa ruppe la consolidata procedura di approvvigionamento cibo.
Era così sovrappensiero che non s'era reso conto che la porta della sala era chiusa. Se ne accorse solo quando, dopo averci sbattutto dentro la testa china e pensierosa, si ritrovò a fissarla col culo a terra, sbalordito ed un poco stordito. Rialzandosi, ringraziando il cielo che nessuno lo avesse visto, s'aggrappò alla maniglia per girarla appena riguadagnata la posizione eretta,ma quella non cedette nemmeno di un millimetro.
Chiusa. La porta era chiusa. Rimase immobile, mano sulla maniglia, a pensare a come risolvere il problema, per quasi cinque minuti. Completamente immobile, il respiro quasi imperecettibile. Sembrava una stauta di cera. Della stuatua aveva anche i processi mentali però. Passò quei cinque minuti letteralmente in stato di shock. Non riusciva a pensare. Non riusciva a capacitarsi della cosa. Continuava a saggiare la resistenza della manigla ed a scontrasrsi con la sua inamovibilità. Ed ogni volta era un nuovo trauma, peggiore anche della testata nella porta, più fastidioso del leggero pulsare che iniziava a sentire sulla fronte, indice di un bernoccolo che iniziava il suo irritante ciclo vitale.
Quando si riebbe si diede di nuovo dell stupido. Avrebbe dovuto pensarci. Era logico che avrebbero chiuso a chiave gran parte delle sale... però lui aveva fame. Decise di andare in esplorazione. Avrebbe girato tutto il palazzo se fosse stato necessario, ma avrebbe trovato qualcosa da mangiare. Di sicuro qualche macchinetta spara schifezze in funzione l'avrebbe di certo trovata.
Partì fiducioso, in compagnia del suo stomaco brontolante; avviandosi verso l'ascensore certo , se non risultato che si prefiggeva, quantomeno dei propri intenti, ma le brutte sorprese non erano destinate a finire. Di fronte alla porta scorrevole rivestita d'acciaio satinato si trovo a premere il pulsante di chiamata senza ottenere nessuna risposta. Sussurrò un "ascensoooore!", memore della barzelletta che tanto divertiva il suo capo reparto... lo faceva sempre. Tutte le volte. Arrivava in quel punto e, pigiando il pulsante son una mano, avvicinava l'altra alla bocca e simulava la chiamata.
"Ascensoooooreeee!" faceva. con la mano libera a imbuto...
Lui, come gli altri, si trovava a dover considerare la cosa divertente. Certo, dopo dieci anni la scenetta era decisamente stantia, ma oramai era quasi un riflesso condizionato, solo che nel tono della sua voce non ci furono ne allegria ne divertimento. Iniziava a sentirsi scocciato. Gliascensori era fuori servizio.
Premette il pulsante ancora, a frequenza isterica, ancora una decina di volte, ben sapendo oramai che quella chiamata non avrebbe ricevuto nessun genere di rispsota. Nessun numerino acceso sulla porta. Nessun conto alla rovescia. Decise, quasi avesse delle alternative, per le scale, domandandosi per la prima volta dacchè lavorava in quel posto dove potessero essere.
Le trovò poco distanti, gradini in cemento armato e corrimano in acciaio smaltato. La porta antipanico, dal grosso maniglione centrale, che si trovò a spingere per entrare nella tromba delle scale fece una certa resistenza tanto che per un attimo pensò che anche quella fosse chiusa, ma poi si aprì e si ritrovò nella squadrata spirale di scalini che metteva in comunicazione i vari piani dell'edificio. Decise di iniziare la propria eplorazione dall'alto.
Immaginava, chissà poi perchè, che i piani più altri, essendo sede di aziende più presigiose della sua, sarebbero stati meglio forniti. Che le schifezze sarebbero state qualitativamente e quantitativamente superioi. Immaginando distributori robotizzati parlandoi con schermi pirotecnici e leccornie pantagrueliche iniziò la sua scalata vero i piani alti.
Solo per trovarsi di fronte non ad una, ma a ben due porte categoricamente chiuse a chiave. Era logico, si disse, le porte antipanico si aprono dal lato del maniglione... dal lato delle scale, dove la maniglia è di tipo normale, c'è la serratura. Era logico che fosse chiusa.
Logico, certo, ma per nulla piacevole. Sopratutto pensando al fatto che non riusciva a ricordare se aveva lasciato aperta la porta del proprio piano. Sopratutto di fronte al fatto che, scendendo, trovò tutte le altre porte chiuse.
Quando ritronò al proprio piano sudava per la tensione. Aveva iniziato a pensare che sarebbe potuto succedere. Il pensiero l'aveva sfiorato, qualche piano più in alto. Cosa avrebbe fatto se avesse trovato chiusa anche la "sua" porta?
S'era quietato dicendosi che certamente era aperta, che sicuramente non era stato tanto stupido.
Ora che era al piano, con tutti i suoi quasi cento e passa chili in carenza di zuccheri letteralmente appesi a quella dannata maniglia che non ne voleva sapere di muoversi anche solo di un millimetro, l'unica cosa di cui era certamente sicuro era che era un perfetto idiota. Un'altra cosa di cui era certo era che aveva il cellulare sulla scrivania, oltre quella porta, più o meno al centro di quel labirinto di cubicoli che aveva imparato a chiamare "ufficio".
Iniziava a temere che non sarebbe riuscito a termiare il lavoro.
Iniziò a scendere le scale di corsa, provando le porte una dopo l'altra, osservando i numeri che identificavano i piani scentdere fino allo zero, per poi iniziare a salire di nuovo, iniziando a contare i piani interrrati. Sapeva che c'era un parcheggio sotterraneo o qualcosa del genere, aveva visto la rampa d'accesso, ma non sapeva quanti piani effettivamente ci fossero. Al decimo piano sotto la superfice del mondo, trovandosi sempre di fronte a porte chiuse e maniglie irremovibili, cominciò a chiedersi quando si sarebbe risvegliato. Di certo era un incubo. Non poteva essere vero. probabilmente s'era addormentato alla scrivania ed ora sognava di trovarsi in quella situazione allucinante. Non poteva essere vero. non potevano esserci più di ciecipiani di parcheggi sotterraneo per un edificio di appena 30.
Continuò a scendere, sudava copiosamente, nonostante la temperatura fosse decisamente rigida, e continuò a trovarsi di fronte a porte chiuse e maniglie bloccate. Finchè non raggiunse il fondo.
Sulla parete del pianerottolo in cemento armato, fra le due porte, era dipito in grigio scuro il numero 50. lo lesse quasi con stupore. Si girò su se stess, quasi per essere certo che le scale on continuassero ancora (assurdo per assurdo, ci stava anche quell) e quasi fu deluso di non vederle scendere ancora.
Cinquanta piani?! Era assurdo.
Appoggiò la mano sulla porta alla sua destra, mormorando un "ascensoooore!" a mo di silenziosa preghiera a chissà quale divinità architettonica. Sentendo la porta gelida ritrasse la mano, quasi si fosse bruciato.
Anche la maniglia era gelata. Fece un passo indietro e da sotto la porta vide un leggera nebbiolina azzurrognola venire fuori da sotto la porta. Si chinò avvicninando una mano e la sentì gelida. Tirandosi su appoggiò la mano alla maniglia e per aiutarsi ad alzarsi, iniziava davvero ad essere stanco, e per tentare di aprire quella porta.
Nessuna rotazione, quasi nessuna resistenza, ma la maniglia, completamente gelata, gli rimase in mano. Fumava tanto era fredda.
Prima ci fu lo stupore, restò a fissare quell'oggetto inanimato per alcuni secondi, troppo stupito per articolare un qualsiasi pensiero, poi venne il dolore. La maniglia, gelata, stava iniziando a congelargli anche la mano. Quando se ne rese conto rosse striscie di dolore iniziavano già a comparire sui palmi della sua mano destra.
Coi gli occhi lacrimenti per il dolore, i denti stretti in una morse nervosa, la testa pervasa da un dolore lancinante causato dalla fame e dallo stress di quella situazione senza nessun senso, Alberto girò su stesso fino a ritrovarsela di fronte.
Lei, l'altra porta. O meglio. L'ultima porta.
Per quanto ne sapeva quella era la sua ultima possibilità. Poi... meglio non pensarci, ma nella sua mente iniziavano a formarsi immagini poco piacevoli. Decisamente poco piacevoli.
Si avvicinò guardingo, la mano destra al petto, per proteggerla. Allungò titubmante la mano sinistra a toccarne l'ingifugo pannello color verde scuro, ritraendola appena i suoi polpastrelli ne sfiorano la superfice, col timore di ritrovarsi nuovamente con la pelle strinata dal gelo.
Si stupì del tempore che invece percepì. Appoggiò più pesantemente la mano, sentendo il caldo tepore emanare dal materiale. Oservò la maniglia, dubbioso e pensieroso. Si avvolse la mano sinistra nella manica del cardigan a quadretti che aveva indossato quella mattina, e la appoggiò alla maniglia.
Che girò sul proprio cardine senza quasi fare resistenza.
La risatina, che riconobbe come quasi isterica, che gli sgorgò dal fondo della gosa quasi lo colse di sorpresa.
La maniglia arrivò al fondo della sua corsa ed un sottile clic lo avvisà che la porta era ora aperta.
Iniziando a tirarla verso di se, vedendola ruotare sui cardini, Alberto si prese il lusso di un piccolo sospiro di sollievo. Ora tutto si sarebbe sistemato.
Girandosi ad osservare il numero sul pianerottolo ancora non credeva di trovarsi 50 piani sotto terra, ma quando riportò lo sguardo oltre la porta non seppe più a cosa credere.
Subito non riuscì ad interpretare correttametne quello che i suoi occhi gli stavano mostrando. Il suo cervello, aspettandosi un atrio o un parcheggio sotterraneo, piuttosto che una cantina, non era preparato a quello che si trovò di fronte.
Questa volta, per capacitarsi dalla sorpresa gli ci vollero ben più di cinque minuti.
Rimase a fissare il nero immenso vuoto che gli si spalancò di fronte a bocc aperta.
La luce filtrava dalla scala ed andava a perdesri in un vuoto immane,nel quale, non lo vedeva chiaramente ma lo sospettava, quasi che riuscisse a vederlo chiaramente solo con la coda dell'occhio, forme alate col muso da roditore, forme mostruose, enormi, che volteggiavano senza sosta.
Forme gigantesche e cieche che si libravano in quella che sembrava una caverna dalle dimensioni incoerenti con qualsiasi cosa avesse mai visto nella sua vita, e mntre il suo cervello cercava di capire cosa i suoi occhi cercavano di mostragli la luce si spense.
Un refolo d'aria. uno suittio quasi stizzino.
La porta si chiuse.

Se qualcuno fosse stato sul pianerotto del piano con la scritta 40 avrebbe forse sentito l'urlo. Solo pochi piani più in su il silenzio non sarebbe stato disturbato.
Un silenzio di tomba.

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